Alcuni sono proprio bruttini, come googolare o gugolare, pinnare (da Pinterest), altri sono più simpatici: twittare, scotchare. Si tratta di un fenomeno giovane che consiste nel prendere un nome di marca e “verbificarlo”. Anche verbificare non è una parola attraente, però rende bene il fenomeno. Si crea un neologismo in forma di verbo che indica l’azione collegata a quel prodotto/marca. Si googola su Google, si twitta su Twitter. Le ragioni di questa prolificità verbale sono varie: spesso la marca è così innovativa che non esiste ancora un verbo che le si adatti, e si dovrebbero usare giri di parole farraginosi. La nascita di un verbo ad hoc può essere anche legata ad un coinvolgimento emozionale per quella marca, o al fatto che la marca sia dominante … Però non è successo per Facebook, Nike, Apple.
Naturalmente è fondamentale anche la pronuncia della marca e della potenziale verbificazione, che deve facilitare la comunicazione, essere smart e grintosa … e certe marche proprio non si prestano (ipodare, facebooccare). Per le lingue anglosassoni il risultato è sicuramente migliore: to fedex, to hoover, to xerox.
Quest’uso anomalo del nome di marca può però essere il primo passo verso la volgarizzazione: oltre che nella comunicazione orale infatti il “verbo di marca” si trova nell’uso scritto con l’iniziale minuscola e chissà che qualcuno già non googoli su Yahoo o su altri motori di ricerca. Insomma, se inizialmente ad un brand può far bene girare in molte forme sulla bocca di tutti, alla lunga questa popolarità può nuocergli e indebolire il suo valore.