Una lettura per le vacanze. Si tratta di un libro eccezionale scritto da una dama di corte giapponese vissuta tra il 978 e il 1014 circa, in pieno periodo Heian. Il titolo del libro è “La storia di Genji” (Genji Monogatari) ed è un’opera di più di mille pagine che descrive la vita di corte di quel tempo. Cerimonie, intrighi, amori, tradimenti “con una attenzione alle sfumature psicologiche del comportamento umano e le reazioni ai fenomeni naturali in un modo tale che noi, nella nostra era tecnologica allora del tutto inconcepibile, riusciamo ancora ad immedesimarci nei sentimenti e stati d’animo dei personaggi” come dice Cees Noteboom (Cerchi Infiniti). Il libro è ormai tradotto nelle principali lingue occidentali, e da noi se ne è occupata Einaudi con la traduzione di Maria Teresa Orsi.

L’autrice di “La storia di Genji” è Murasaki Shikibu, imparentata con la potente famiglia Fujiwara e dama personale dell’imperatrice. Una scrittrice donna è già di per sé un evento per noi occidentali, se poi pensiamo a cosa produceva l’occidente intorno all’anno mille, “La storia di Genji” è ancora più sorprendente. Murasaki scriveva in giapponese perché le donne non erano autorizzate a scrivere nel più nobile cinese; si legge anche su Wikipedia che “la scrittura in sinogrammi era allora considerata prerogativa maschile e le donne potevano servirsi del cinese solo marginalmente e con discrezione, per non passare per saccenti”.

In quanto donna appartenente ad una famiglia colta, Murasaki sapeva comporre poesie, musiche e conosceva nei minimi dettagli le regole di comportamento e i giochi di corte. Da queste competenze nacque un’opera che a un millennio di distanza ancora continua a vivere nel teatro nō e ad ispirare oltre alla letteratura, tante forme di arte non solo giapponese. La portata di Murasaki è pari a quella di Shakespeare per la cultura occidentale.

Un grosso problema per la comprensione del testo è proprio legato ai nomi dei personaggi: “chiamare qualcuno per nome era considerato volgare nella società del tempo, perciò nessuno dei personaggi viene chiamato col proprio nome nel romanzo; ci si rivolge agli uomini facendo riferimento al loro rango od alla loro posizione a corte, ed alle donne facendo riferimento al colore dei loro abiti, alla loro residenza, alle parole usate in un incontro od al rango o posizione ricoperta da un loro parente uomo. Di conseguenza, a seconda del capitolo si possono trovare per i medesimi personaggi appellativi diversi” (Wikipedia). Neanche Genji è il vero nome del “Principe Splendente” definito così perché luminoso per intelligenza, cultura e bellezza fisica.

E nemmeno Murasaki è il vero nome della scrittrice, ma un soprannome; venne chiamata Murasaki perché amava indossare abiti viola, ed era esperta nella sovrapposizione delle vesti colorate con un talento nel riprodurre i colori della stagione. Murasaki è un termine che in giapponese indica un caratteristico colore tra il porpora ed il viola, ed è generalmente tradotto con “viola”. Mentre l’appellativo Shikibu deriva dalla posizione governativa del padre “Maestro Cerimoniere” (shikibu-shō)

Per un giapponese di oggi leggere in originale Genji Monogatari è un’impresa praticamente impossibile; noi che leggiamo la traduzione di una lingua molto difficile e particolare siamo ancora più disorientati, ma abbiamo l’opportunità di entrare in un mondo fantastico, quello del feudalesimo giapponese così ben rappresentato dall’autrice.