Ho appena sentito in radio l’intervista alla vincitrice del premio Campiello, Donatella di Pietrantonio con l’Arminuta, e quello che mi ha colpito delle sue poche parole è stata la dichiarazione del perché la protagonista del romanzo non ha nome. Perché non ha una identità; questa è un’affermazione dura, solenne. La vicenda narrata nel romanzo scompagina la vita della tredicenne protagonista, al punto da far perdere coordinate e senso, in particolare il senso di essere, di appartenere. E il centro su cui si fonda la persona stessa si sgretola. Non essere identificata da un nome, una scelta narrativa forte, rappresenta questo senso di non identità e di dispersione. E così la ragazzina viene chiamata “l’Arminuta” che in dialetto abruzzese significa la “ritornata, quella che ritorna”. L’autrice dedica il premio anche all’Abruzzo, sua terra natale e luogo in cui viene ambientato l’intenso romanzo.
Per le persone, come per i prodotti il nome è una certezza. È il primo riferimento, la prima pietra, il fondamento su cui si aggrega senso, valore e storia.
«Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo piú a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza».