Vi siete mai chiesti perché sia così facile e frequente assistere al cambiamento di un logo, ma sia invece così raro che il cambiamento interessi anche il nome della marca?
Il re-styling o il semplice lifting di un logo interessa i colori, le forme, l’icona simbolo, e a volte la base line; le aziende vi ricorrono quando devono sottolineare un cambiamento, un’evoluzione, o semplicemente quando desiderano mandare un messaggio di freschezza ed attualità. Ed allora le forme si smussano seguendo i moderni orientamenti del design che punta alla morbidezza e alla rotondità; i colori si allontanano da quelli originari, pensati magari 40 anni prima, e puntano su toni e combinazioni più moderne ed intriganti.
Ma il nome no!!! Il nome di marca è intoccabile; è l’elemento del mix che è più rischioso modificare perché un cambiamento di nome viene inevitabilmente percepito come un cambiamento di prodotto, e quindi come una nuova nascita, un nuovo battesimo.
Per un prodotto o una marca il cambiamento di nome è molto raro ed ha quasi sempre alle spalle un problema grave di ordine linguistico, giuridico o di posizionamento. Meno rari sono invece i cambiamenti di nome di società. Per un prodotto “toccare” il nome significa toccare il suo cuore, modificare il suo DNA, la base su cui si costruisce l’intero valore della marca. Ed ogni modifica porta così a disperdere l’eredità della marca. Inviatemi i casi clamorosi di cambiamento di nome di prodotto a cui avete assistito.
Ricordo un “cotonelle” che divenne “cotoneve” e fecero per il nuovo nome (furono obbligati a cambiarlo per un ricorso) un concorso con i clienti. Chi vinceva, vinceva un premio correlato al bianco, al chiarore, alla morbidezza: forse un soggiorno nella neve, non ricordo. Panten –> Pantene. Bio spray lo scioglimacchia –> Bio shout. Ma forse il più problematico e incomprensibile è Anitra WC –> Duck (della SC Johnson)